Seneca
Il valore della filosofia (Lettere a Lucilio XVI, 3-5)
La filosofia non è un sapere alla portata di tutti e non è fatta per essere esibita. Non sta nelle parole ma nei fatti. E non si pratica per questo motivo, affinché la giornata trascorra con una qualche piacevolezza, oppure affinché la nausea venga rimossa dai momenti morti. Crea e forma lo spirito, regola la vita, controlla le azioni, mostra ciò che va fatto e ciò che va evitato, siede al timone e mantiene la rotta attraverso i pericoli delle cose che si agitano. Senza di lei, nessuno può vivere in maniera sfrontata, con tranquillità. In ogni momento succedono un sacco di problemi che hanno bisogno di una soluzione, che dev’essere richiesta a lei. Qualcuno dirà: «A che mi serve la filosofia, visto che esiste il destino? A che mi serve, se tanto è dio che decide? A che serve, se (invece) regna il caso? Infatti, le cose certe non possono cambiare, e nulla può essere preparato contro quelle che non si conoscono; eppure, o un dio ha preso possesso delle mie facoltà mentali e ha deciso (al posto mio) cosa fare, o il caso non lascia nessuno spazio per una mia decisione». Qualunque (ragione) esista davvero fra queste, Lucilio, o se anche esistano tutte, bisogna praticare la filosofia: sia che il destino ci incateni con la (sua) legge inesorabile, sia che un dio padrone di tutto l’universo abbia predisposto tutto quanto, sia che il caso metta in movimento e agiti le faccende umane senza un ordine, la filosofia deve proteggerci. Questa (la filosofia) ci spingerà a obbedire di buon grado a dio, e controvoglia alla sorte; ti insegnerà a seguire dio e a sopportare il destino.
Il suicidio secondo Giacomo Leopardi (dalle Operette morali)
Io so bene che non dee l’animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d’animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.
De brevitate vitae 1, 1-3





De brevitate vitae 1, 1 -3